PROCIDA, IL GRIDO DI DOLORE DI MICHELE ROMANO

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Di Michele Romano

 L’estate procidana si sta caratterizzando in un costante grido di dolore. Si parte da quello, drammaticamente veritiero del “primo cittadino”, al mellifluo lamento esistenziale di consiglieri comunali, proseguendo con ipocrite e strumentali esternazioni di tanti altri espressioni della società locale. Davanti a tali manifestazioni sentimentali proviamo stupore e meraviglia perché si assiste alla scoperta dell’acqua calda in un contesto socio-politico dove, da alcuni decenni, il concetto di comunità si è venuto a dissolvere sotto la scure di un sistema socio-economico-etico costruito sull’individualismo esasperato, sul sopruso, sulla illegalità, sul disprezzo delle regole, degno di una civile convivenza sulla distruzione dell’ambiente con tassi di inquinamento al di là di ogni limite (i notevoli casi di “cancro” che si manifestano nella cara polis micaelica stanno là a dimostrarlo). A tal proposito interessante è la proposta del Ministro dell’Ambiente di applicare il daspo sportivo, cioè il divieto di accesso allo stadio da parte di chi crea perniciosa turbativa, anche ai cittadini ed amministratori che alimentano problematiche estremamente nocive alla saluta altrui.

Fatta questa digressione, bisogna dire che si vive in un clima di silente paura in cui una parte della collettività imperversa con spavalderia sul territorio e un’altra appare curva e rassegnata nella sua quotidianità. Stiamo attenti ai pianti da coccodrillo e fermarsi lì dopo aver scaricata l’adrenalina interiore, perché si possono avere effetti ancor più deleteri di un silenzio assordante in cui stanno già apporpate le varie istituzioni ed agenzie educative. Urge passare dal pianto, con energia e coraggio, a cambiare verso, nel profondo, con il costruire la visione del futuro, attraverso la trasformazione radicale del “modus vivendi” che sta sbriciolando il nostro meraviglioso sito.

In tal senso, da ferventi credenti nella speranza, auspichiamo che non si verifichi ciò che afferma Günther Anders cioè: l’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttare via, finirà per trattare anche se stessa come una umanità da buttare via. Sarebbe tragico, un giorno, scoprire che da noi questa metamorfosi antropologica è avvenuta.